Vittorio Pozzo nacque a Torino il 2 marzo 1886, da una famiglia di origini biellesi e di modeste condizioni economiche. Egli studiò al liceo Cavour a Torino, poi studiò lingue, giocò al calcio in Francia, Svizzera ed Inghilterra, restando particolarmente affascinato da quest’ultimo paese e facendo di tutto per capire i segreti degli inventori del calcio: fu la sua futura arma del successo. Una delle squadre in cui militò da calciatore fu la svizzera Grasshopers, in seguito tornò a Torino, dove fu uno dei fondatori del Torino FC, vi giocò fino al suo ritiro dal calcio giocato nel 1911, in quell'anno divenne direttore tecnico di quella squadra, carica che manterrà sino al 1922. Dopo gli studi divenne dirigente della Pirelli, lasciò l’azienda quando fu chiamato per la prima volta a guidare la nazionale italiana di calcio, in qualità di commissario unico, in occasione delle olimpiadi del 1912: accettò l'incarico a patto che non venisse pagato; la nazionale non fece una bella figura, Pozzo si dimise e tornò alla Pirelli. Durante la Prima Guerra mondiale partecipò con il grado di tenente degli alpini: quell’esperienza militaresca lo colpì e la applicherà ai suoi metodi di allenamento calcistici. In occasione delle olimpiadi di Parigi del 1924 Pozzo fu chiamato nuovamente a dirigere la nazionale italiana dopo una pesantissima sconfitta: quella volta la squadra arrivò ai quarti di finale ed egli si dimise nuovamente. Poco dopo perse la moglie, uccisa da una malattia incurabile, e si trasferì a Milano, dove iniziò a collaborare col giornale La Stampa, in qualità di giornalista, incarico che manterrà sino alla morte. Nel 1929 fu chiamato nuovamente dal presidente federale Leandro Arpinati a dirigere la nazionale italiana, manterrà quell'incarico per 19 anni: guiderà gli azzurri per 87 partite, ne vincerà 60, ne pareggerà 16 e ne perderà appena 11, la nazionale nella sua gestione segnerà 144 reti e ne subirà 80, la sua squadra starà per 30 partite consecutive senza perdere. Nei 19 anni alla guida della nazionale vinse 2 Coppe Internazionali, 2 campionati del mondo e un oro olimpico. Nessun allenatore, italiano e estero, ha vinto due mondiali, solo Pozzo vi riuscì. Fino agli anni Trenta la tattica più diffusa nel calcio era stata la cosiddetta piramide di Cambridge, cioè un 2-3-5 a forma di piramide rovesciata che aveva il suo vertice nel portiere, negli anni del primo dopoguerra, per evoluzione, dalla piramide ebbero origine simultaneamente il WM, o sistema. Pozzo e Meisl svilupparono l'idea di uno schieramento con due difensori arretrati e un giocatore centrale posto dinnanzi alla difesa, in mezzo ai due mediani. Questo giocatore, detto appunto centromediano metodista, fungeva da cardine della manovra ed era un vero e proprio antenato del "regista" all'italiana. Pozzo con la nazionale vinse il suo primo trofeo nel 1930, la Coppa Internazionale, antenato dell’odierno Campionato Europeo per Nazioni; tornando in treno da Budapest, dalla partita decisiva per l’assegnazione, la coppa di cristallo, passando di mano in mano tra i giocatori, cadde e si frantumò in mille pezzi, Pozzo raccolse un pezzo, se lo tenne per amuleto e gli portò bene. Ed è assai noto l'episodio in cui Pozzo portò a visitare i teatri di battaglia della Prima Guerra Mondiale, prima di giocare le sfide decisive di Coppa Internazionale contro Austria e Ungheria, eredi di quell'Impero Austro - Ungarico, contro cui Pozzo e alcuni suoi giocatori avevano combattuto contro.
Si dice che lo stesso abbia ricevuto minacce dal Fascismo in caso di sconfitta italiana al mondiale casalingo del 1934, ma lo vinse. Vinse l’olimpiade a Berlino nel 1936 e l’altro mondiale nel 1938, variando le rose dei giocatori in tutte e 3 le competizioni. Nel frattempo continuò il mestiere di giornalista per La Stampa, scrisse pure il pezzo sulla finale del 1934: gli bastava un appunto, scritto da dietro la linea di porta, dove di solito assisteva alle partite e poi sviluppava i testi. Nel dopoguerra la sua nazionale era costituita dal Grande Torino, ma il tempo per nuovi trionfi non ci furono: vuoi per la Seconda Guerra Mondiale, vuoi per il fatto che fu esonerato dopo le olimpiadi di Londra del 1948 e vuoi perché il grande Torino perì in un disastro aereo, in quella tragedia egli ebbe il tormentato e doloroso compito del riconoscimento dei giocatori. Con la scusa del raggiungimento del limite di età vollero mandarlo via, ma forse la vera ragione era il suo presunto legame con il Regime Fascista, di cui aveva abbracciato l’ideologia immettendola nel calcio: nel saluto romano dei giocatori, nel loro attaccamento alla patria e nello stile caserma militare nei lunghi ritiri della squadra. Ma senza di lui la nazionale italiana tornerà a vincere il campionato mondiale solo nel 1982. Partì per il mondiale del 1950 in Brasile, ma questa volta come inviato de La Stampa. Visse in solitudine i suoi ultimi anni: fu abbandonato e accantonato da quel mondo che non gli perdonava i suoi successi e un’infelice partecipazione ad una trasmissione televisiva di Mike Bongiorno, La fiera dei Sogni, lo portò ad isolarsi ancora di più. Morì a Ponderano in un oblio totale, che non fece onore al nostro calcio, il 21 dicembre 1968. Nel 1990, anno del secondo mondiale italiano, rifiutarono di intitolargli il nuovo stadio di Torino, che fu denominato Stadio delle Alpi.
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